Notule
(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)
NOTE
E NOTIZIE - Anno XXI – 23 novembre 2024.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del
testo: BREVI INFORMAZIONI]
Individuata una quinta classe di
fotorecettori con melanopsina nell’occhio: cosa fa? Una
sottopopolazione di cellule gangliari della retina umana contiene il fotopigmento melanopsina, che conferisce loro una
sensibilità alla luce indipendente da quella di coni e bastoncelli retinici, e
consente loro di agire come una quinta classe di fotorecettori. Thomas
W. Nugent e colleghi hanno dimostrato che questi
fotorecettori a melanopsina sono in grado da soli di produrre un percetto visivo
in risposta a pattern spaziali e temporali; ma non possono ricostruire
la forma dell’immagine.
Le evidenze sperimentali suggeriscono
che la melanopsina costituisca parte intrinseca del modo in cui l’occhio
vede grandi aree dello spazio visivo per lunghe durate di tempo. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2411151121,
2024].
Perché la corteccia entorinale
riconfigura l’attività della corteccia olfattiva? Le
cortecce sensoriali primarie visiva, uditiva, tattile e olfattiva sono più
complesse di quanto si ritenga, codificando anche mappe spaziali e informazioni
sul movimento. La corteccia piriforme olfattiva non risponde solo agli odori, ma
anche al contesto spaziale in cui appaiono le molecole odorose. Ora, Olivia Pedroncini
e colleghi hanno scoperto che assoni provenienti dalla corteccia entorinale
laterale, che elabora informazioni di posizione del soggetto nell’ambiente,
riconfigurano l’attività dei circuiti della corteccia piriforme. Il tipo
di riorganizzazione funzionale suggerisce che gli input delle fibre
entorinali arricchiscano l’elaborazione olfattiva di informazioni spaziali
legate alle fonti di profumi, aromi, lezzi e miasmi. [Cfr. PNAS USA – AOP
doi: 10.1073/pnas.2414038121, 2024].
Schizofrenia: EEG multicanale e
intelligenza artificiale (AI) per la diagnosi. Sara
Bagherzadeh e Ahmad Shalbaf
hanno costruito una nuova “immagine” dall’EEG multicanale basandosi sulla
fusione di tre connettività efficaci: PDC, dDTF, TE,
a tre consecutive finestre temporali. Questa “immagine” è stata usata come input
di 5 ben note reti convoluzionali (CNN) attraverso TL (transfer learning)
per apprendere pattern di pazienti schizofrenici e fare diagnosi di
disturbo schizofrenico, distinguendo gli elementi diacritici da elementi
fisiologici di cervelli non affetti da psicosi, di due banche dati pubbliche.
Le verifiche hanno dimostrato l’efficacia di questo nuovo metodo di fare
diagnosi, basandosi su immagini fuse da segnali EEG multicanale e usufruendo
del supporto dell’intelligenza artificiale (AI). [Cogn
Neurodyn. 18(5):2767-2778, 2024].
Schizofrenia: modello di diagnosi
automatizzata da EEG e intelligenza artificiale (AI). Rakesh
Ranjan e Bikash Chandra Sahana hanno sperimentato, per la diagnosi precoce di
schizofrenia negli adolescenti, un modello automatizzato che sfrutta
informazioni da EEG a 16 canali e l’intelligenza artificiale per identificare
elementi diacritici per il rilievo del disturbo schizofrenico. Sfruttando una
banca-dati accessibile al pubblico, i ricercatori hanno sperimentato su 84
adolescenti, 45 dei quali affetti da schizofrenia e gli altri fungenti da
controllo, la loro procedura.
Non entrando nei complessi dati tecnici
del metodo, qui rileviamo che questo sistema decisionale per la diagnosi
(computer-assisted decision-making model)
minimizza limiti ed errori dei precedenti studi e sembra costituire un ausilio
promettente all’ordinario lavoro diagnostico nell’ambito della psicopatologia
clinica delle psicosi. [Cogn Neurodyn. 18(5):2779-2807, 2024].
I leoni di montagna a Santa Monica fanno
il turno di notte per non disturbare la gente. I bellissimi
ambienti naturali tra la periferia di Los Angeles e le Montagne di Santa Monica
sono frequentati da escursionisti, ciclisti e da un vero esercito di giovani e
meno giovani impegnati nel fare jogging e tante altre attività motorie,
ludiche e sportive a scopo salutistico. Quel territorio è anche l’ambiente
naturale dei leoni di montagna della regione e, dunque, in molte ore del giorno
i leoni potrebbero trovarsi a condividere gli spazi con migliaia di persone.
Ellie Bolas dell’Università della California a Davis e colleghi hanno condotto
uno studio di osservazione durato 7 anni, dopo aver catturato 22 leoni di
montagna, averli muniti di collari con GPS e accelerometro e averli rilasciati
nel loro ambiente. Bolas e colleghi hanno verificato che i leoni
progressivamente hanno cambiato le proprie abitudini, lasciando campo libero
all’alba e al tramonto alla gente di passaggio, e relegando alle ore notturne
le proprie attività. [Fonte: Biological Conservation: e110812, 2024].
Emozioni animali: un tentativo alla
Emory University di fare il punto delle conoscenze. Uno
studio condotto da ricercatori la Emory University, pubblicato su Royal
Society Open Science e centrato sulla visione corrente delle emozioni e
della coscienza animale, ha raccolto le opinioni di 100 studiosi del
comportamento animale, appartenenti a campi disciplinari differenti in un
raggio che va dall’etologia alle neuroscienze. Lo studio non manca di rilevare
come molte idee siano cambiate nell’arco di 20 anni, e come siano cadute le
rigide distinzioni e separazioni basate su vecchie nozioni; inoltre, per
discutere l’evoluzione del pensiero, fornisce anche puntuali cenni storici
sulle tappe del progresso da Darwin a Frans de Waal, con la sua Politica
dello scimpanzé del 1982. Tuttavia manca, a nostro avviso, un focus
sulle interpretazioni delle più importanti e recenti acquisizioni neuroscientifiche
circa i processi cerebrali animali mediatori di emozioni, affetti e
consapevolezza. [Cfr. Royal Society Open Science – AOP doi:
10.1098/rsos.241255, 2024].
Fauno: un esempio del processo che
riconduce l’immaginario agreste all’ordine simbolico dominante. Abbiamo
analizzato spesso miti e trame mitologiche rivelando, grazie a paradigmi di
decodifica, i rapporti sicuri e probabili con soggetti e fatti della realtà;
oggi consideriamo un esempio di un processo che ha impegnato per secoli le autorità
romane e le personalità di cultura al servizio del governo di Roma: ricondurre
tutte le figurazioni e le tradizioni agresti degli abitanti delle campagne ai
miti e alle storie urbane innestate sul tronco della cultura greca, con la sua
coerenza interna, riflesso dell’ordine razionale sempre cercato, in vista di
un’armonia ideale. In estrema sintesi concettuale, si trattava di ricondurre
tutto l’immaginario agreste, con le sue credenze tramandate
oralmente e il suo potere di influenza familiare sulle coscienze, all’ordine
simbolico dominante, fondato sull’ontologia dei filosofi e sulle trame dei
miti nell’interpretazione dei poeti, che ne temperavano e ne calibravano i valori
di senso in funzione di esigenze d’arte e ragioni di stato.
Fauno era in origine una divinità
italica rurale dal culto antichissimo, privo di forme rituali definite, forse
per la prevalenza della venerazione in forma individuale e privata. I Romani lo
avevano trovato nei territori delle prime conquiste, dove avevano spiegato al
popolo agricolo che gli dei sono entità immortali e universali, pertanto il
loro dio doveva corrispondere, sia pure con un nome diverso, a uno degli dei
greco-romani da loro venerati. Ma l’identificazione si rivelò subito
problematica; infatti, l’interpretatio romana,
che aveva portato all’equivalenza delle dodici divinità dell’Olimpo greco della
Teogonia di Esiodo in quelle romane per semplice traduzione del nome con
l’eccezione di Apollo che conservava il nome greco[1], vedeva
discordi e incerti gli stessi proponenti. Infatti, solo dopo molte generazioni,
quando si era in gran parte persa la memoria familiare del Fauno delle origini,
fu accettata l’identificazione con Pan. Il problema è che la divinità agreste
italica originava con ogni probabilità dalla deificazione di un antico capo di
tante tribù di pastori-agricoltori privi di una lingua scritta ed estraneo ai
talenti d’arte e ingegno del virtuoso suonatore del “flauto di Pan”, nonché a
tutti i caratteri celebrati nella ricca mitologia che va dalla sfida ad Apollo
all’origine del “panico”.
Piuttosto, Fauno era considerato capace
di preveggenza e lungimiranza; qualità che, nella realtà dell’uomo poi divinizzato,
dovevano corrispondere a capacità di previsione basate su conoscenza e abilità
deduttive, ignote a un popolo impegnato dall’alba a notte inoltrata nel lavoro
di agricoltura e allevamento. Si tentò una genealogia, ritrovata in alcuni
documenti antichi, che lo voleva figlio di Pico e nipote di Saturno. Ma,
evidentemente, non ebbe successo, perché non fu ripresa da alcun interprete di
rilievo.
Era proprio l’idea di identificarlo con
una divinità minore ad essere poco convincente: gli italici pre-latini lo
consideravano come un dio unico o superiore ad altri antenati venerati,
attribuendogli prerogative di Giove. Forse, proprio questa ragione è
all’origine di un mito focalizzato sulla capacità di Fauno e Pico di far
manifestare Giove. La trama mitologica si svolge al tempo del secondo re di
Roma, Numa Pompilio, che aveva un gran da fare nel tenere a bada le popolazioni
italiche sottomesse e, nel racconto, Fauno e Pico rappresentano simbolicamente
quei popoli. Leggiamo il mito in estrema sintesi: la ninfa Egeria, amata da
Numa Pompilio, insegnava il suo sapere al sovrano, e un giorno lo istruì su
come avrebbe potuto carpire a Fauno e Pico il segreto della loro abilità di far
manifestare Giove agli occhi dei mortali; disse di versare di nascosto una
grande quantità di vino nella vena della fonte a cui bevevano i due, in modo da
ubriacarli, e quando sarebbero stati ebbri, obbligarli a convocare Giove; così
fece il re e, all’apparire di Giove, gli chiese di allontanare i suoi fulmini
da lui, ma il re degli dei pose la condizione di un sacrificio umano: voglio
una testa – cioè la vita – in sacrificio.
A questo punto è di estremo interesse la
“traduzione” che fa Numa Pompilio della richiesta di Giove, perché questa ci
rivela la realtà dietro la rappresentazione simbolica e metaforica della
narrazione. Il re allestisce il teatro simbolico di un sacrificio: al posto
della testa d’uomo pone una testa d’aglio, per facilitare la lettura simbolica
aggiunge capelli umani e, per rappresentare la vita immolata, un’alice o
acciuga, cioè un pesciolino che si mangiava crudo dopo averlo decapitato.
Cosa era accaduto? Fauno e Pico ubriachi
avevano rivelato che erano loro a dare voce a Giove, ingannando con un trucco i
soldati romani: una finzione; allora Numa Pompilio, stando al gioco del potere
rurale dei due, salvaguardandone la reputazione presso il popolo ma ottenendo
la loro sottomissione al potere di Roma, offre un finto sacrificio al finto
Giove.
Ci sia consentita una brevissima
notazione antropologica: la forma del sacrificio di Numa Pompilio che,
con ogni probabilità non era originale, viene importata nella pratica
superstiziosa di maghi e maghe, che millantavano un potere di influenza a
distanza, attraverso il gioco simbolico della “fattura”. Ma, mentre il teatrino
di Numa Pompilio è teso a ottenere l’intervento di una potenza divina, nella
pratica superstiziosa si attribuisce il potere all’oggetto simbolico, alla
fattura. Non sappiamo se il “codice” adottato dal secondo re di Roma fosse già
in uso (come è probabile), addirittura antico o suo originale, fatto sta che
nello studio antropologico dell’apotropaica dell’Italia centro-meridionale si
trova la formula così resa in napoletano moderno: aglio fravaglio,
fattura che non quaglia, corna e bicorna (corni e bicorni), capa alice e capa
d’aglio.
Se fravaglio
o fragaglio, che vuol dire “piccolo di pesce”,
è introdotto per la rima con “aglio”, le teste dell’alice e dell’aglio sono una
ripetizione inconsapevolmente ritualizzata e trasmessa per secoli del
simbolismo di Numa Pompilio. Di passaggio, si ricorda che i peperoncini rossi,
da cui i cornetti e i corni, nell’apotropaica derivano dal simbolismo priapico e designano un oggetto capace di effetti materiali
a distanza, da cui origina la stessa idea della “bacchetta magica”.
Ma torniamo a Fauno. Gli italici che si
opponevano all’imposizione della teogonia greco-romana proponevano due
possibilità che legavano il dio al territorio nella sua storia preromana: che
fosse il padre o il marito di Bona Dea. Questa divinità femminile, detta spesso
“Fauna”, era oggetto di un culto che i Romani avevano tentato di sopprimere e,
non riuscendovi, avevano integrato latinizzando con questo nome l’identità di
un idolo agreste del tutto mite e a cui si riconoscevano solo qualità positive.
Il culto, riservato a donne vergini, escludeva l’uso di vino e di mirto, non si
sa bene perché: le ricostruzioni sono di origine romana e non si sa quanto
attendibili.
Una di queste ricostruzioni vuole che il
padre di Bona Dea ubriacatosi volesse abusare di lei e, al suo fermo rifiuto,
l’avesse fatta flagellare con rami di mirto. Un documento di epoca successiva
racconta di Ercole che aveva chiesto del vino a delle donne intente nella
celebrazione del rito della Bona Dea e che, al loro rifiuto perché avevano
bandito il vino, Ercole vietò l’accesso delle donne agresti alle sue
celebrazioni presso il grande altare allestito a Roma in suo onore. È facile
dedurre che si tratta di una versione razionalizzata del rifiuto delle adepte
di Fauna a diventare Vestali o Sacerdotesse di Diana, entrambe vergini ma
devote a entità sacre greco-romane.
Un passaggio chiave nella latinizzazione
di Fauno è costituito da un episodio di guerra: la battaglia della Selva
Arsia. La Silva Arsia, un boschetto alla periferia di Roma che segnava il
confine col territorio di Veio[2],
fu teatro nel 509 a.C. di uno scontro armato contro gli Etruschi in cui perse
la vita il console romano Lucio Junio Bruto; il combattimento aveva prodotto
una carneficina e, giunti a una sosta dei belligeranti, i Romani erano prossimi
ad arrendersi quando, secondo il mito, sentirono la voce di Fauno, che
comunicava loro che gli Etruschi erano rimasti con un uomo in meno dei Romani
e, dunque, erano battibili. Che fosse un uomo, un popolo o un centro di potere
eponimo non è dato sapere, ma è certo che il nome “Fauno” indica un aiuto da
una popolazione autoctona, appartenente al sostrato prelatino. Forse per questo
episodio qualche fonte molto antica definiva Fauno un mortale figlio di Marte. Probabilmente
questa fedeltà ai Romani degli adoratori di Fauno ha favorito e promosso i vari
tentativi di latinizzazione di questo idolo del sostrato, che gli
“intellettuali” volevano riportare nei confini del valore di appartenenza,
al quale la mentalità dell’epoca attribuiva importanza assoluta. Si legge,
allora, che Fauno governava sul Tevere quando giunse il Greco Evandro
dall’Arcadia in quelle terre italiche, e che Fauno accolse Evandro con tutti
gli onori, donandogli la terra su cui sarebbe sorta Roma. Questo filo di trama
giustificherebbe anche il tentativo di assimilare Fauno a Pan, dio
dell’Arcadia.
Un’altra tradizione mitica tendeva a
identificare Fauno con Evandro, facendo leva sul comune possesso di requisiti
di bontà, oblatività, generosità e cortesia. Il nome “Evandro” si considerava
volesse dire “uomo probo”, “brav’uomo”, “gentiluomo” e al nome “Fauno” si
attribuiva il valore semantico di “gentile”. Ma gli etimologisti moderni e gli
studiosi di storia delle lingue ritengono questi tentativi antichi delle
forzature prive di fondamento.
Chiudiamo questa breve trattazione col
mito di Fauno che ebbe più successo nella Roma imperiale, anche se la sua
plausibilità non è superiore a quella degli altri.
Marica, considerata una bellissima ninfa
delle paludi e dunque una naiade dai Romani, era in realtà una dea del popolo
degli Ausoni, identificati anche con gli Aurunci, che presso la città di
Minturno, vicina al golfo di Gaeta, intorno al VI secolo a.C. avevano edificato
il più grande dei templi in suo onore. Marica, il cui nome ha un etimo connesso
alla radice mediterranea *mara che si riferisce a specchi d’acqua di
piccole dimensioni, anche paludosi, diversi dai laghi, ma talvolta formati dal
mare, era venerata da una tradizione orale preromana che ne esaltava la kalokagathia,
ossia la coincidenza di bellezza e bontà. Secondo il mito più ricordato dai
Romani, Fauno se ne innamorò perdutamente e la sposò. Dal matrimonio di Fauno e
Marica nacque Latino, re dei Latini al tempo in cui giunse Enea, che sposò sua
figlia Lavinia.
E così, con la creazione di questa trama
mitica, si fa entrare nell’immaginario pantheon romano delle origini, ossia dalla
porta principale dell’identità storico-genetica di Roma, una divinità agreste antichissima
e totalmente estranea alla cultura greco-romana. [Seminario Permanente sull’Arte
del Vivere – BM&L-Italia, novembre 2024].
“Essere e Senso” al Seminario Permanente
sull’Arte del Vivere di BM&L-Italia (seconda parte). Pubblichiamo
qui la seconda parte del saggio Essere e Senso, in particolare i
paragrafi 3 e 4. Per la prima parte (§§ 1-2) si rinvia alle “notule”
della scorsa settimana (Note e Notizie 16-11-24 Notule).
Qui di seguito si riporta la breve
introduzione alla prima parte pubblicata la settimana scorsa.
[Il
titolo di questo studio che stiamo conducendo da due anni è nato proprio in
antitesi costruttiva al distruttivo L’Être et le Néant (L’Essere e il Nulla) di Jean-Paul
Sartre, che nel maggio del 2022 ci è stato riproposto come chiave di lettura
degli sviluppi più recenti dell’anti-pensiero post-moderno. La parola “Senso”
del titolo deve essere intesa quale “sensazione psicologica di significato che
costituisce valore” (Giuseppe Perrella) come nell’espressione “il senso della
vita”. Riprendiamo questo argomento da una rielaborazione di un saggio omonimo
di Monica Lanfredini, che esprime l’orientamento prevalente fra i soci].
3. All’origine del termine essere
e della sua radice antropologica di senso. L’ambito lessicale della parola essere in greco designa valori
semantici di estremo interesse, che rivelano l’origine da una radice
concettuale coincidente con tutto ciò che esiste in natura. Studiando il termine,
gli storici delle lingue, d’accordo con gli etimologisti, hanno riconosciuto il
suo uso legato fin dall’epoca arcaica all’esigenza di denominare e comunicare a
proposito dell’esistenza materiale. La chiave dell’essere, per i Greci, è nella
phusis (o physis), quella natura che genera e trasforma la
materia inorganica, tanto quanto quella organica degli esseri viventi. Il
concetto è formulato in riferimento alla presenza nel tempo e nello spazio di materia
e, dunque, rimane ben lontano dal vuoto del nulla cosmico e di ogni
negazione di realtà della speculazione contemporanea.
Il vocabolo phusis
nella sua radice vuol dire essere, appartiene alla famiglia del verbo phuō, che vuol dire produco, genero, cresco, e
origina dalla radice sanscrita bhu-, bhavati, che designa appunto l’essere, e dalla
quale deriva anche il latino fui, perfetto di esse.
In Parole
della filosofia Salvatore Natoli scrive: “Essere è un termine assoluto
della filosofia. La parola è dei Greci, e comunque è stata elaborata
filosoficamente da loro. L’antica parola ritorna nella filosofia di Aristotele
e ne rappresenta il transconcetto per eccellenza:
l’essere considerato per sé stesso, l’essere in quanto essere. Ma cosa
significa tutto questo, cosa intende Aristotele per essere? Intende la totalità
di tutto quel che esiste, di quel che c’è. E nel dire “c’è” mi riferisco a ogni
singola determinazione, e in generale a ogni tode
ti. Per Aristotele infatti solo il tode
ti[3]
ha realtà, effettivamente esiste: il mondo è fatto di sostanze prime”[4].
Ai fini della
nostra riflessione è importante sottolineare una differenza radicale tra la
concezione di Aristotele e quella sviluppata, dopo tanti secoli di cultura cristiana,
dal pensiero che accosta e contrappone l’essere e il nulla, sulla scorta di
Nietzsche, Heidegger e Sartre: Aristotele denota ogni determinazione concreta,
ogni tode ti, come esistenza assoluta;
il “non essere” non indica mai un puro niente, ma solo un differente stato
della phusis al quale non si può applicare il termine “essere”.
4. La conversione al Dio ebraico
sposta l’essere dalla materialità della natura all’immaterialità dello spirito. La nozione di essere cambia con la comparsa
all’orizzonte della storia dell’umanità del Dio degli Ebrei. Il fatto, secondo
i credenti, consiste nel diffondersi, attraverso le conversioni, della
conoscenza dell’unico vero Dio rivelato al popolo ebraico; secondo atei e
agnostici consiste nella diffusione di una cultura che ha il suo fulcro nella
concezione religiosa monoteista di un Dio creatore. In ogni caso, l’Ente
supremo indicato con le lettere del tetragramma JHWH quando gli Ebrei ancora
non scrivevano le vocali, e poi translitterato in vario modo, fra cui Javé e Jeova, aveva definito sé
stesso, nel racconto della rivelazione, in termini di essere, dicendo:
“Io sono colui che è”. Frase riportata spesso in italiano con una
sgrammaticatura: “Io sono colui che sono”, giustificata dall’intento di fedeltà
letterale all’originale ebraico in cui vi è la ripetizione della stessa forma
verbale.
Rispetto alla
concezione greca, che fin dai tempi arcaici riporta l’esistente nella sua
totalità di cose ed esseri viventi alla materialità della phusis, il
monoteismo ebraico accentra la nozione di Essere nel Creatore, che la
possiede nella sua astrazione come qualità assoluta, perfetta ed eterna,
e dal quale si irradia in ogni elemento della realtà nella diacronia
universale. “In questa ottica – ha osservato il nostro presidente – la coscienza
individuale di ciascuno può considerarsi come un frammento dell’estensione
nel tempo e nello spazio dell’essere che procede da Dio e al quale si fa
appartenere la dimensione dell’anima”.
Il
cristianesimo, non si limita a diffondere da Roma in tutta Europa, nel Vicino
Oriente e nel Nord Africa, l’insegnamento pastorale evangelico che conferisce
implicitamente all’Eterno Padre lo statuto di Essere per essenza,
esistente da sempre e per sempre senza un inizio e una fine, ma fonda la
teologia e l’esegetica come discipline dello spirito che vogliono accrescere
l’intelligenza umana di Dio e delle Sacre Scritture.
Il cambiamento
è sostanziale: l’essere umano cambia la sua essenza, perché non appartiene più
alla materialità biologica della phusis, ma all’immaterialità spirituale
di Dio, e la sua natura consiste in un’anima immateriale ospitata in un corpo
mortale, ma destinata a vivere come Dio in eterno. L’essere cristiano, a
immagine e somiglianza del Creatore, ha il suo nucleo identitario nell’anima e
solo un elemento accessorio, ovvero una dimora, nel corpo. Nasce così il
concetto di carne. Quella parte che include ogni organo e apparato,
compreso il cervello, ed è governata da un regime interno espresso da desideri
che entrano in contrasto con la legge divina e richiedono la proba e saggia
amministrazione da parte della volontà.
Si passa dal corpo
che si è, della cultura greca ed ellenistica, al corpo che si ha
della concezione cristiana. Per i Greci il corpo coincide con l’essere della
persona; per i cristiani è una parte, e non quella principale: una vera
rivoluzione.
Ma la
differenza maggiore è nell’attribuzione di valore. Il valore della persona per
gli antichi è determinato dalla posizione che occupa nella scala sociale, o da
meriti speciali pubblicamente riconosciuti. Nel cristianesimo il valore, uguale
per tutti gli esseri umani, è conferito dal comune statuto di figli di Dio. Nel
mondo pagano si cresce di considerazione piacendo agli uomini, in quello
cristiano si progredisce nella santità piacendo a Dio.
Anche se nella
realtà umana documentata dalla storia il mondo cristiano esiste nelle leggi,
nella cultura e nell’ispirazione dell’arte, senza riuscire mai a compiere il
Regno di Dio su questa Terra, ossia senza mai realizzare una società di santi,
e conservando in singoli, in gruppi, in popoli interi, in tradizioni di
sostrato, nel ritorno di antichi peccati come costumi nuovi importati da paesi
idealizzati dal desiderio, molti aspetti della sensibilità pagana. La cultura
cristiana, però, impronta in modo decisivo il pensiero dei due millenni per ciò
che attiene il modo di concepire l’esistente: Dio ha creato tutto dal nulla,
perciò chi crede riporta tutto a Dio e chi non crede tende a risalire al nulla,
e non si accontenta più dell’inizio greco dal chaos.
Infatti, andando oltre l’archē, il principio
di tutto col quale Aristotele apre il libro della Metafisica, troviamo
l’origine nella Teogonia di Esiodo dal chaos,
che, lungi dall’essere uno stato di confusione secondo l’accezione moderna del
vocabolo caos, “configura una condizione ‘beante’, l’aprirsi nell’atto
stesso del dischiudersi e il suo permanere in un’oscillazione di porte
insufficienti su un varco di esistenza come possibilità indefinita in un
apparente equilibrio d’attesa, anche se presumibilmente precario, del divenire
costitutivamente indecidibile”[5].
È questa
origine ideata dalla creatività ellenica primordiale che non regge più, che non
può più soddisfare gli esigenti intelletti formati sulla cultura costituitasi
in secoli e secoli di razionalismo cristiano. Infatti, la riflessione che ha
inizio con i Padri della Chiesa, anche se prende le mosse dal partito preso
dell’esistenza di Dio, costituisce un progresso logico dal quale è difficile se
non impossibile tornare indietro. Cerchiamo di capire perché, riflettendo su
alcuni spunti di due tra le guide principali della teologia cristiana: Agostino
d’Ippona e Tommaso d’Aquino.
Sant’Agostino,
non solo considera l’esistenza originaria di tutte le cose quale esito di una
decisione da parte dell’Essere assoluto che le pone in esistenza per sua
volontà: dixisti et facta
sunt, ma lega questo atto alla teologia di
Giovanni Evangelista che vuole Gesù, quale Verbo divino, presso Dio fin da
principio: in verbo tuo fecisti ea (Confessioni,
XI, 5.7). Ma il punto nodale per le nostre riflessioni è la dipendenza
dell’essere, quale senso o valore di tutte le cose, da Dio; le
cose, infatti, se non rapportate al Creatore “nec
pulchra sunt nec bona sunt nec
sunt” (Confessioni, XI, 4, 6): non sono
né belle né buone né esistono. Non esistono: dunque, se uno non crede in
Dio ma continua a pensarla come il cristiano Agostino, si trova già di fronte
al nulla, inteso naturalmente nel registro e nella calibratura, come si
è detto, del senso o valore.
Tommaso
d’Aquino, nella prima prova dell’esistenza di Dio nella Summa Teologica,
ragiona così: tutto ciò che si muove è mosso da qualcos’altro[6],
ma non è possibile un regresso all’infinito, quindi è necessario che esista un primum
movens che non sia mosso da altro e sia, per questo, immutabile. Nella
terza prova, dopo aver distinto tra possibile e necessario, imposta la
questione in termini di essere: costatiamo che vi sono cose che possono essere
e non essere, infatti si generano e si corrompono, ed è quindi
impossibile che tali cose esistano da sempre, perché ciò che può non essere
deve necessariamente avere un tempo in cui non è. Ma se ciò fosse vero,
nulla ci sarebbe perché ciò che non è non può cominciare a essere se non in
virtù di ciò che è, quindi deve esistere qualcosa che sia per sé necessario e
che non abbia causa di necessità in altro, ma sia causa di necessità per altri:
quod omnes dicunt
Deum, ciò che tutti chiamano Dio[7].
Senza entrare
nel valore delle argomentazioni tomiste[8],
ci rendiamo conto di come questo pensiero, che ha influenzato tutta la cultura,
dalla teoretica teologica al costume linguistico – basti solo pensare che
ancora oggi in patologia, in tutto il mondo, si usa l’espressione primum
movens per indicare il primo elemento causale di una catena di eventi
eziologici – abbia scavato per secoli nelle coscienze un solco di senso che
afferma che l’essere in senso stretto è un ente che esiste solo da sé e per sé.
Concludendo,
se non possiamo attribuire l’essere al corpo di una persona, come accadeva in
Grecia, dove zoe, la vita, con i suoi segmenti
di esistenza o bios, appartiene alla phusis matrice dell’essere,
e dobbiamo considerarlo solo come un’astrazione assoluta, non vi sono molte
alternative fra il credere in Dio, considerare la realtà umana sospesa nel
nulla o formulare una nuova teoria dell’essere.
[Continua].
Notule
BM&L-23 novembre 2024
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La Società
Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society
of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Il Dodekatheon:
Zeus-Giove, Era-Giunone, Ares-Marte, Ermes-Mercurio, Apollo, Atena-Minerva, Artemide-Diana,
Afrodite-Venere, Poseidone-Nettuno, Demetra-Cerere, Dioniso-Bacco,
Efesto-Vulcano. Cui spesso si aggiunge come tredicesima Estia-Vesta.
[2] La selva, in territorio etrusco,
era stata indebitamente occupata dai Romani per tagliare alberi e farne navi da
guerra.
[3] Lo scorso anno è apparsa una
monografia sul tode ti inteso quale sostanza individuale: Marcello Zanatta, La sostanza
individuale e le sue strutture nella metafisica dell’esperienza di Aristotele.
Edizioni Unicopli, Milano 2021.
[4] S. Natoli, Parole della Filosofia o dell’arte di meditare, pp. 92-93,
Feltrinelli, Milano 2004.
[5] Giuseppe Perrella al Seminario
sull’Arte del Vivere, giugno 2022.
[6] Omne quod movetur ab alio movetur in Summa Theologiae I, 1 q.2 a.3.
[7] Summa Theologiae,
ibidem.
[8] Cfr. S. Natoli, Parole della Filosofia o dell’arte di meditare, p. 95,
Feltrinelli, Milano 2004.